
Blasco Giurato, il cinema come arte transitoria
17 Marzo 2022
Erano gli anni Sessanta, un periodo di rivoluzione esistenziale per molti. «Io avrei dovuto seguire le orme di mio padre e diventare un diplomantico, e dopo lotte titaniche per ottenere una maturità mi andai a iscrivere a scienze politiche, quando il mio destino fu completamente sconvolto». Arrivando dal suo quartiere di Roma nord, Blasco Giurato mancò la fermata dell’autobus diretto all’università, e si ritrovò alla Stazione Termini, dove una troupe stava girando un documentario dall’insolito titolo “Ferrovia”. Un amico di scuola lo riconobbe, gli chiede una mano, gli mette delle pizze in mano, e così comincia la sua carriera nel cinema, nella Documento Film, «storica società di quegli anni che si occupava di tutto: cinegiornali, film… e soprattutto documentari».
Per molto tempo Blasco si occupò di montaggio. Un giorno, per malattia, mancò l’operatore che avrebbe dovuto occuparsi di un cinegiornale: lo sostituì e impugnò per la prima volta la macchina da presa, capendo che era quella la sua vocazione. Dai documentari con Mario Carbone alla “consacrazione” grazie a un weekend a Linosa: «I miei capi andarono a Palermo, mentre io rimasi solo sull’isola. Alle 5 della domenica mattina fui svegliato da una campana a morto. Vidi una fila di donne vestite di nero e dei contadini con una bara bianca: presi la macchina da presa e cominciai a filmare il funerale di un bambino, con le mammane che gridavano. Tornato a Roma montai questo materiale con una montatrice dell’epoca, ci mettemmo un gran bella musica di Bach e lo mandammo al Festival dei Popoli, dove arrivò terzo».
Nasce in questo modo la carriera di uno dei più stimati direttori della fotografia italiani, dalla prima esperienza in questo ruolo nel 1973, nello sceneggiato La baronessa di Carini, fino alle esperienza con Visconti, Fellini, Tornatore, e molti altri dei registi che hanno reso in cinema italiano leggendario. Una volta fare l’operatore di camera e il direttore della fotografia riservava grandissimi poteri, e quindi grandi responsabilità, perché in mancanza di monitor digitali come accade oggi si era l’occhio del regista e bisognava prendere decisioni delicate. «Eri tu a dire“Facciamone ‘n’altra”, oppure “Va bene così, basta”». Per questo la sintonia con il regista deve essere massima, come il rispetto nei suoi confronti, perché ogni esperienza è unica, e «ogni film ha la sua storia: per noi è come un matrimonio, o partorire un figlio in comune». E lui con il suo occhio o la sua mano ha partecipato ad almeno 160 opere.
Il cinema non è un’arte, sostiene Blasco Giurato. O meglio, «è un’arte transitoria, ci sono solo pochissimi film che resteranno nella storia del cinema di cui uno ancora va e non gli è passato un secondo. Se vedi alcuni dei vecchi capolavori nostri, a cui noi eravamo attaccati come a una cosa meravigliosa, oggi non si possono nemmeno più guardare, tanta è stata l’evoluzione dei tempi, di certi tipi di velocità visive», racconta Giurato, che non ha mai smesso di andare al cinema, e che in questi giorni dal suo schermo di computer sta guardando uno dopo l’altro tutti i film in concorso per il David di Donatello – di cui ne salva davvero pochi quest’anno.
La chiacchierata al telefono con Blasco Giurato rimbalza da un ricordo all’altro, da un aneddoto a un consiglio, scorre veloce nella sera romana. Anticipare troppo rispetto al contenuto di questo podcast sarebbe rovinare la trama. Se il trailer vi è piaciuto, potete ascoltarlo qui.