
Giacomelli e le Marche
5 Novembre 2022
Nelle ultime settimane abbiamo sentito parlare di Marche soprattutto per la tragedia che le ha colpite sotto forma di alluvione, devastandone il territorio e la vita degli abitanti. Le fotografie non andrebbero mai rilette o piegate ai significati, ma se pensiamo a una delle prime fotografie di Mario Giacomelli, quella della scarpa sulla battigia della spiaggia che viene lambita e trascinata dall’acqua, non possiamo non riconoscere l’eccezionale potere evocativo che forse il suo autore non avrebbe mai voluto darle. «Prima di ogni scatto c’è uno scambio silenzioso tra oggetto e anima, c’è un accordo perché la realtà non esca come da una fotocopiatrice, ma venga bloccata in un tempo senza tempo per sviluppare all’infinito la poesia dello sguardo che è per me forma e segno dell’inconscio», sosteneva.
Nato il primo agosto del 1925 a Senigallia, Mario Giacomelli, è famoso soprattutto per i suoi bianchi e neri e per l’astrattismo grafico delle sue immagini, “ereditato” dalle prime esperienze lavorative di garzone in tipografia quando a 10 anni rimane orfano di padre e si rimbocca le maniche per portare a casa quanto serve alla famiglia. Alla fotografia si avvicina intorno ai trent’anni, e passato per ritratti e nature morte arriva ai paesaggi, attraverso cui ci racconta per una vita la terra in cui è nato e cresciuto, costruendo e inventando una nuova immagine di quegli spazi – e, a modo proprio, anche la land art. «Una buona parte di questi paesaggi sono stati creati, e ho cominciato a fare degli interventi sul paesaggio fin dal 1955; sono intervenuto sul paesaggio perché… non trovi niente che ti colpisca… allora se trovi davanti ai tuoi occhi un’immagine che ha solo bisogno di una correzione, una aggiunta di segni, di linee, di buchi, che il caso o il contadino non hanno saputo fare, allora intervengo io». Disegnando sulla neve e sulla terra, con l’aiuto dei contadini, e utilizzando la fotografia aerea trasforma le sue Marche in un’opera concettuale.
Mario Giacomelli, Io non ho mani che mi accarezzino il volto, 1961/63 © Archivio Mario Giacomelli, Simone Giacomelli
Dagli inizi come fotografo, nei primi anni Cinquanta, quando conosce Ferruccio Ferroni, anche lui fotografo, e il critico d’arte Giuseppe Cavalli lo prende sotto l’ala, inserendolo nell’Associazione Fotografica Misa, passano 11 anni: è nel 1964 che la carriera del fotografo cambia, quando il direttore del dipartimento di Fotografia del MoMA di New York, John Szarkowski, lo inserisce tra i nomi della mostra The Photographer’s Eye – tra cui Walker Evans, Henri Cartier Bresson, Robert Frank e altri – e acquisisce alcune fotografie dalle serie Scanno e lo splendido lavoro sui seminaristi di Io non ho mani che mi accarezzino il volto. La sua fama cresce, ma Giacomelli rimane sempre profondamente radicato alla propria terra, che continua a scegliere per sperimentazione e ricerca: viaggia per l’Italia, tra Abruzzo, Puglia e Calabria, fa un viaggio a Lourdes, spostandosi sempre malvolentieri, preferisce tornare a Senigallia, esplorandola dal mare all’entroterra, ma non per questo non continua nella sua evoluzione artistica, e gli interventi fisici sulla pelle dei campi danno vita a diverse serie di Paesaggi: Metamorfosi della terra, La terra che muore, Presa di coscienza sulla natura, Le mie Marche.
«Le mie immagini – dice – portano sempre amore-rispetto verso l’uomo, cioè l’uomo che sognando ha seminato grano o altro. Nella terra c’è il passare delle stagioni e l’uomo man mano che respira…dalle mie foto si deve sentire; ci sono le rughe del suo volto, ma anche i segni della sua mano. In alcuni miei paesaggi ci sono le stesse pieghe che si vedono se uno prende una lente d’ingrandimento e guarda una mano; questo lavoro dell’uomo è come ingrandito con una grande lente nella terra».
«La fotografia mi ha aiutato a scoprire le cose a interpretarle e rivelarle. Racconto la conoscenza del mondo, in una architettura interiore dove le vibrazioni sono un continuo fluire di attimi, di avventure liberanti come espressione totale dove sento tutta la completezza della mia esistenza». Fin da ragazzo Giacomelli dipinge e scrive poesie, e questo sempre si rifletterà nel suo modo di fare e di parlare di fotografia. Nello stesso modo, molte delle sue serie fotografiche si ispirano proprio alla poesia e al racconto di scrittori e poeti, da “A Silvia” del suo conterraneo Giacomo Leopardi, alle opere di Eugenio Montale, all’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters, e altri. «In fondo fotografare è come scrivere: il paesaggio è pieno di segni, di simboli, di ferite, di cose nascoste. È un linguaggio sconosciuto che si comincia a leggere, a conoscere nel momento in cui si comincia ad amarlo, a fotografarlo. Così il segno viene a essere voce: chiarisce a me certe cose, per altri invece rimane una macchia».
(A Silvia, 1988)