Frames Blog Federico Serrani

Passaggio a Parigi

1 Dicembre 2021

parole di @ale_theia

Sono stata da poco a Parigi. Se dovessi collocare più precisamente il mio passaggio, direi a seguire rispetto all’ultima opera, postuma ma come sempre sorprendente – forse per questo di più – di Christo, che ha impacchettato l’Arco di Trionfo, uno dei simboli della città, 50 metri d’altezza per 45 e 22 di larghezza e profondità. Avrebbe potuto essere più sorprendente solo se avesse impacchettato la Tour Eiffel, alta sei volte tanto, anche se di notte sarebbe mancato a tutti vederla splendere, punto di riferimento da qualsiasi angolo di Parigi.

Arc Empaqueté, ph by Filippo Fior

L’Arco di Trionfo è quel monumento che, una volta usciti dall’Orangerie, freschi di ripasso delle ninfee di Monet – affiancate nella sfida orizzontale, in questo periodo e fino al prossimo 14 febbraio, dalle opere dell’americano David Hockney, prodotte durante il suo ultimo anno in Normandia –, sembra raggiungibile in pochi minuti proseguendo sempre dritti da Place de la Concorde lungo l’Avenue des Champs Élysées. E invece resta sempre lì, lontano, al suo posto, come per un’illusione ottica. Le macchine sfrecciano semaforo dopo semaforo, i turisti corrono lungo le strisce approfittando del verde per scattare qualche foto del vialone illuminato come di magia, ma per arrivare a osservarlo finalmente dal basso, per sentire tutta la sua imponenza, ci vuole un passo svelto e non provato da una giornata di camminate e di musei. 

Il pensiero di un ristorante libanese a pochi passi dalla chiesa di Montmartre è facile distragga, insieme all’elaborazione mentale delle opere del pittore parigino Chaïm Soutine, che ha ispirato più di ogni altro Willem de Kooning, esposte fino al 10 gennaio sempre al Musée de l’Orangerie. Il collega americano vide per la prima volta quei quadri negli anni ‘30, poi in una retrospettiva al MoMa di New York nel 1950 e ancora nel 1952 alla Barnes Foundation. Da quelle suggestioni che lo turbarono e affascinarono insieme, da quelle pennellate materiche capaci di farsi quasi carne, l’autore sviluppo un particolare stile espressionista e astratto, di cui divennero il soggetto principale le donne. “Sono sempre impazzito per Soutine – per tutti i suoi quadri. Forse è la ricchezza della pittura. Costruisce una superficie che sembra materiale, come una sostanza. C’è una sorta di trasfigurazione, una carnalità, nel suo lavoro,” dichiarò l’americano. Se penso alle carcasse animali dipinte dal pittore francese tra le sfumature rosse e verdi la fame non mi passa, anzi.

Parigi in questo periodo è già fredda, l’unica cosa che potrebbe scaldare i pugni nascosti nelle tasche è il sole, ma è già tramontato da tempo. L’acqua in bottiglia costa quasi più dello champagne, e chi ama le insalate deve scendere a patto con quelle salsine che non sono per tutti. È chiaro che passeggiare stimola l’appetito, e dopo aver attraversato parchi, giardini, ponti sulla Senna, avanti e indietro, è impossibile farsi bastare la luculliana porzione di gallettes al grano saraceno consumata per pranzo, insieme a una birra artigianale che costa meno di una tazza di tè o di un cappuccino. Un amico toscano che vive di fronte al cimitero di Père Lachaise da un paio d’anni mi ha detto che ci ha messo davvero poco per rendersi conto che tutto sembra fatto apposta a Parigi per rendere la vita più viziosa e godereccia. 

 

La discesa dalla collinetta di Montmartre, più bella al crepuscolo, quando tutto ciò che c’è di più commerciale torna a dormire, e restano illuminati i ristoranti che offrono cucina da tutto il mondo – torno a pensare a quell’ottimo libanese, mi dico che vorrei provare l’afghano lì vicino, e poi decido di cedere alle specialità georgiane che si trovano qualche isolato più in là – porta direttamente a Pigalle, il centro della vita notturna più dissoluta, o dichiaratamente tale. Le insegne degli show per adulti si alternano a quelle dei sexyshop, che fanno capolino dall’altro lato della strada mentre ordini un bicchiere di vino seduto nel dehors di un bar uguale a tutti gli altri: gli stessi tavolini, le stesse sedie, le stesse tovaglie, gli stessi menù, cambiano i volti dei camerieri, i nomi delle vie, ma la luce ti coccola come in qualsiasi altro posto, qui sanno bene come usarla. 

 

Il vino che sto bevendo è morbido quanto la luce che ci accarezza, quanto le linee dei marmi del Brancusi, offerti dal Centre Pompidou senza bisogno di un biglietto, tutti i giorni dalle 2 alle 6 del pomeriggio, esclusi i martedì e il primo di maggio. A prova di turisti, chi è che proverebbe a visitare qualcosa proprio il martedì? Se abitassi a Parigi, in quella zona, ci vorrei tornare tutti i giorni, o almeno una volta alla settimana, per scoprire un dettaglio nuovo a ogni passaggio, per rifugiarmi nel cosmo ordinato dei suoi studi, ricreati come fossero gli originali. In mezzo a quegli attrezzi, a quelle opere, mi ci vorrei rifugiare un po’, prima di dirigermi verso la Senna e guardare la Notre Dame ferita. Sono già passati due anni e mezzo dall’incendio, a me sembra ieri. La riapriranno nel 2024, dicono alcuni, altri parlano di 15 o 20 anni. La tappa obbligata di qualsiasi viaggio a Parigi, weekend romantico o gita scolastica che fosse, è inagibile. Vedere dal vivo la cattedrale impacchettata sui lati come un’opera di Christo mi ha fatto effetto. 

 

 

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