Frames Blog Federico Serrani

Tre libri per cominciare (bene) il 2023

19 Gennaio 2023

di Jasmina Trifoni

Che cosa si può definire arte? È una domandina facile facile, per cominciare questo 2023 in modo ambizioso, attraverso tre libri fondamentali. Il primo racconta di un fotografo geniale, prima del quale (e sono passati appena cinquant’anni) chi osava accomunare la fotografia a colori all’arte veniva guardato dall’alto in basso. Nel secondo, un venerando artista diventato universalmente famoso con i suoi oil on canvas, crea arte usando l’i-Pad. Mentre nel terzo la superstar mondiale della critica d’arte svela vizi e virtù – e diamanti e bufale – dell’eccentrico e affascinante pianeta (e relativo mercato) della creatività. Buona lettura.

 

“Sono mere osservazioni che galleggiano nel mare della sua coscienza… Per me, disegnano uno spazio vuoto”. Questo è stato uno dei commenti – e nemmeno il più feroce – sulle fotografie di William Eggleston contenuti nella lettera scritta da Ansel Adams a John Szarkowski, il curatore che aveva avuto la sfacciataggine (o, con il senno di poi, la geniale intuizione) di presentare, per la prima volta al mondo e nella storia di una prestigiosa istituzione museale, la personale di un fotografo che usava il colore. Mentre Walker Evans, un altro grande maestro, pur col garbo di non citare direttamente Eggleston, ci era andato ancora più pesante: “Il colore tende a corrompere la fotografia, e il colore assoluto la corrompe in modo assoluto”. 

Era il 1976, e quella del rivoluzionario lavoro di William Eggleston al MoMa di New York si era aggiudicata il primato della mostra più odiata dell’anno. Ma se fino ad allora il colore era relegato nel ghetto della fotografia commerciale, Eggleston – nato nel 1939 a Memphis, Tennessee, da un’agiata famiglia di piantatori di cotone e formatosi da autodidatta studiando sui libri di Henri Cartier-Bresson e dello stesso Evans – aveva segnato una pietra miliare: la fotografia a colori era stata riconosciuta come una forma d’arte. E lui sarebbe diventato il mostro sacro che avrebbe avuto un’influenza determinante sulle successive generazioni, non soltanto di suoi colleghi – due fra tutti, Martin Parr e Nan Goldin  – ma anche di registi del calibro di David Lynch e Wim Wenders.

Non è un caso – ed è proprio il caso di dirlo – che sotto il cielo di Berlino, in questo inizio del 2023, sia stato pubblicato, per i tipi di Steidl Verlag, Mystery of the Ordinary, il volume definitivo che racconta i cinquant’anni della formidabile carriera di Eggleston raccogliendone sia immagini diventate iconiche (come la sua serie Los Alamos, e in generale, la produzione nei “suoi” sobborghi del Sud degli Stati Uniti) sia gli scatti meno noti o addirittura inediti della serie realizzata tra il 1981 e il 1988 nella capitale tedesca. A riunirli tutti è la sua cifra stilistica e concettuale, dove una penetrante e vivida palette cromatica rende poetica, ed estremamente originale, l’apparente banalità del quotidiano, si tratti del cofano lucente di un’automobile, di un breakfast lasciato a metà, di un freezer stracolmo e con un disperato bisogno di essere sbrinato. O ancora, nel mistero affascinante della quotidianità degli uomini e delle donne per strada, volutamente catturati mentre distolgono lo sguardo. Lasciando all’autore (e allo spettatore) la curiosità di immaginarne le vite, nel momento stesso in cui accadono.

A William Eggleston è dedicata anche una grande esposizione alla C/O Berlin Gallery, visitabile fino al 28 maggio.

 

David Hockney è considerato il più grande artista britannico vivente. Nel 2018, in un’asta newyorkese, il suo dipinto Potrait of an Artist (Pool with Two Figures) è stato acquistato alla cifra record di 90,3 milioni di dollari, sebbene si trattasse “soltanto” di una delle sue numerose opere che hanno per protagoniste piscine e ville – come l’iconica A Bigger Splash (1967) –  che sono già nei libri di storia dell’arte e nell’immaginario collettivo come il simbolo del Californian way of life. Tant’è, alla veneranda età di 85 anni, Hockney può permettersi di presentarsi a un formalissimo lunch a Buckingham Palace con un impeccabile completo di Savile Row e un paio di Crocs gialle ai piedi. E riesce ancora e sempre a creare eccitazione nel mondo dell’arte (e brame tra i collezionisti) con le sue trovate. L’ultima è oggi alla portata di tutti, con l’uscita di My Window (Taschen), il sensazionale e patinatissimo volume in formato XL che racchiude 120 dipinti del mondo che, giorno per giorno, si svela dalla finestra della sua camera da letto nella natìa Bridlington, nella contea inglese dello Yorkshire. Rappresentano una riflessione, ancora fresca e ottimista, sull’inesorabile trascorrere del tempo? O una forma di pittura pigra e anziana, dato che ammette di averli creati tra le lenzuola, e per di più usando soltanto il pollice? Certamente c’è anche questo, e glielo si perdona, perché sono stati realizzati su iPad, un supporto tutt’altro che ovvio, per chi è della sua generazione.

Del resto, Hockney è stato uno dei primi artisti ad accogliere entusiasticamente le nuove tecnologie, che considera ineludibili per il percorso di un artista, senza sentirsi progioniero di una sola tecnica espressiva. Aveva sperimentato la “pittura con la macchina fotografica”, creando collage di Polaroid e, addirittura, usando la fotocopiatrice Xerox, ma è stato il lancio, nel 2009, di quella nuova tavolozza virtuale di Cupertino a scatenare in lui un furore creativo. «Avevo comprato l’iPad in California, quando non era ancora disponibile sul mercato europeo», racconta Hockney. «Allora nessuno ne aveva mai visto uno, almeno nello Yorkshire». È convinto che le nuove tecnologie siano in grado di dare un nuovo slancio alla creatività, e che la missione di un artista sia quello di mostrare come umanizzarle, usando le mille possibilità offerte dal digitale. Anche se avverte che la tecnologia non basta: «Il mondo è straordinariamente bello se ti metti a osservarlo, anche dalla prospettiva di una finestra. Ma la maggioranza delle persone non guarda abbastanza. Tutti guardano davanti a sé, per sapere dove mettono i piedi, ma non osservano davvero ciò che c’è intorno, con intensità. Io lo faccio».

Che l’arte (soprattutto quella contemporanea) sia uno snobbissimo circolo magico per iniziati e multimilionari è una faccenda che – spesso e a ragione – lamentano in molti. Anche tra gli addetti ai lavori. Ma persino tra questi ultimi sono in pochissimi a volervi, davvero, accogliere un pubblico più ampio. Tra questi, e la sua è la fantastica eccezione che conferma la regola, c’è Jerry Saltz. Premiato nel 2018 con il Pulitzer per i suoi testi critici (è columinist del New York Times), sta al mondo della critica d’arte come Beyoncé sta alla musica pop. Se capita di incontrarlo a un vernissage o a una fiera, ovunque nel mondo, tutti si danno di gomito, e cercano di avvicinarglisi con trepidazione da groupie. Saltz è anche una star dei social media e sul suo seguitissimo profilo Instagram posta selfie intelligenti (sebbene l’affermazione possa sembrare un ossimoro) nonché perle della sua saggezza su ogni argomento gli passi per la testa: pochi giorni fa ha definito Avatar il film più brutto e razzista del secolo e Takashi Murakami un artista bravo a creare screensaver. Per lui, quella di democratizzare l’arte e il modo in cui se ne parla e scrive è una battaglia, nobile e giusta. Sostiene a spada tratta che l’arte, tutta l’arte, sia una cosa meravigliosa, ma che non debbano volerci due lauree per decifrarla soltanto “perché la sua squisita essenza viene nascosta da una valanga di… bullshit”.

Spesso condivisibile, a volte disturbante ma sempre “laterale” e godibilissimo, il Saltz-pensiero è stato impacchettato in un formidabile e fondamentale libro uscito a fine 2022 per Penguin Books. Ha un titolo che non ammette repliche, Art is Life, e un sottotitolo arguto, Icons & Iconoclasts, Visinarie & Vigilantes, & Flashes of Hope in the Night.

Raccoglie articoli, saggi e interviste che il critico superstar ha pubblicato negli ultimi vent’anni e regala acrobatiche lezioni di storia dell’arte, dall’epoca dei petroglifi preistorici a Jeff Koons,passando per le statue di marmo dell’età classica e di Rodin, così come per i grandi maestri del Rinascimento, per Picasso e le fotografie di Andreas Gursky. E Saltz avrebbe tradito Saltz, poi, se non avesse piazzato qua e là strali verso istituzioni museali, case d’asta, galleristi, speculatori e wannabe che popolano il suo campo di battaglia, il tutto a comporre quella che è una gioiosa e irriverente dichiarazione d’amore verso tutte le forme d’arte.

 

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